Dizionario del Cristianesimo

A B C D E F G I L M N O P Q R S T V

Storia delle religioni

La storia delle religioni definisce scientificamente l’istituto sacerdotale come proprio e specifico dei politeismi e monoteismi, e quindi connesso con la credenza e il relativo culto di uno o più dèi. Restando ai limiti di questa definizione, che è a un tempo di carattere storico e fenomenologico, si può dire: il sacerdote è un operatore sacrale specializzato e autorizzato o delegato dalla comunità all’espletamento di un servizio divino mediante il quale la comunità stessa è messa in rapporto cultuale con una divinità. In tal modo si distingue scientificamente il sacerdote da altri operatori sacrali (stregone, indovino, medicine-man, sciamano ecc.) la cui azione non presuppone né considera l’esistenza di vere e proprie divinità. In funzione di rappresentanza della comunità, anche se nei limiti di una mediazione cultuale tra umano e divino, l’istituto sacerdotale è geneticamente in concorrenza con l’istituto regale. Esso trae le sue origini storiche in ambiente mesopotamico, dove il sacerdote esplica la mediazione tra umano e divino presentandosi in un duplice aspetto: è il “servo” del dio venerato in un tempio ed è, al tempo stesso, il “capo” della comunità collegata a quel tempio (la città templare). Con l’avvento dell’istituto regale, i due aspetti si scindono e si polarizzano in due figure distinte: il sacerdote e il re. Potremmo dire che l’antico sacerdote-re diventa sacerdote in senso proprio perdendo i suoi poteri sovrani; o, da un altro punto di vista, l’antico re-sacerdote rinuncia alla maggior parte dei suoi poteri sacrali delegandoli al sacerdote, e in tal modo si fa re in senso proprio: cessa di essere soggetto del culto e, parzialmente, diviene oggetto di culto (da re-sacerdote diventa re divino, figlio di dèi e dio lui stesso). Il rapporto genetico tra sacerdozio e regalità lascia tracce negli sviluppi storici di entrambi gli istituti. La stessa scomparsa dell’istituto regale, dove e quando ciò avvenne, comportò una trasformazione dell’istituto sacerdotale in atto che può essere intesa come un “riappropriamento” da parte del sacerdozio di alcune attribuzioni pubbliche della regalità; in determinati casi, come in quelli dell’arconte-re ateniese e del re sacrale romano, si tratta addirittura dell’acquisizione nel novero dei sacerdoti di operatori che continuavano le funzioni sacrali dell’antico re. La concorrenza-complementarità tra i due istituti, il sacerdotale e il regale, poté anche diventare talvolta concorrenza-conflitto. Trascurando i numerosissimi episodi ascrivibili a questa conflittualità in tutte le monarchie del mondo antico (ma anche in seguito: conflitto medievale tra potere spirituale e potere temporale), se ne può commisurare la portata in un grosso stralcio di storia dell’India. Pressappoco all’epoca in cui Roma aveva la sua cacciata dei re (VI secolo a.C.), in India si ebbe una specie di “cacciata dei sacerdoti”, e più precisamente una rivoluzione anti-sacerdotale (e anti-politeistica) contro l’ordine politico-sociale sorretto dalla casta dei sacerdoti (brahmani); è la rivoluzione che portò al buddhismo, tanto per dire il suo effetto più grandioso, e nel contesto buddhistico assumono particolare significato due fatti: il Buddha è tradizionalmente considerato d’estrazione regale; la prima realizzazione di un grande regno indiano, quale conseguenza politica della “cacciata dei sacerdoti”, si ebbe a opera del re buddhista Aœoka. Tra parentesi: se per l’India si può parlare di “cacciata dei brahmani” soltanto in senso figurato, nella vicina Persia ci fu una vera cacciata di sacerdoti da parte del re; sappiamo di un decreto di Serse per il quale i sacerdoti detti “magi” vennero espulsi dal suo regno. Dal punto di vista delle funzioni specifiche il sacerdozio risulta variamente differenziato e articolato nelle diverse culture. La relativa morfologia può essere sommariamente indicata con riferimento a tre contrapposizioni: funzione sapienziale/funzione cultuale; maschile/femminile; normale/anormale. Per lo più dagli officianti veri e propri, o esclusivi, vengono distinti sacerdoti di rango superiore che tramandano ed elaborano la sapienza religiosa (miti, teoria, liturgia  ecc.). Questo tipo di sacerdozio sapienziale ebbe un grande sviluppo nel Vicino Oriente e in India, dove si può dire che esso fosse depositario (e creatore) di cultura sotto molteplici aspetti che, oltrepassando il campo che nella nostra cultura è assegnato alla religione, vanno dal poetico-letterario al giuridico e al filosofico. Manca invece in Grecia quasi completamente; vale a dire che l’unica eccezione è costituita dal sacerdozio templare di certi santuari (come Delfi, Eleusi, Dodona ecc.) funzionanti in autonomia dal potere politico delle città-stato. È rinvenibile in Roma, dove si ebbe un corpo sacerdotale non officiante, quello dei pontefici, cui era demandata la tradizione religiosa, storico-annalistica e giuridica; sempre in Roma i sacerdoti officianti erano distinti con il nome di “flamini”. Nella categoria generale dei sacerdoti officianti si possono trovare ulteriormente differenziati sacerdoti specializzati in una sola funzione; in tal caso essi vengono designati con nomi specifici del tipo “sacrificatori”, “indovini”, “cantori” ecc. Un’altra specializzazione, comportante ugualmente una distinzione nominale oltre che funzionale, consiste nel culto esclusivo di una determinata divinità; si tratta di un’organizzazione del sacerdozio che risponde alle esigenze di una religione politeista: tanti sacerdoti officianti quanti sono gli dèi. Proprio in vista di questo particolare rapporto tra un determinato sacerdote e una determinata divinità, si ricorre normalmente (ma non necessariamente) a sacerdotesse per l’esecuzione di riti destinati a dee. Ancora il particolare rapporto cultuale di un sacerdote con una sola divinità, può condurre alla prescrizione per il sacerdote stesso di specifiche norme di comportamento e di vita adatte a realizzare per lui una condizione differenziata tanto da quella della gente comune quanto da quella degli altri sacerdoti. Un esempio famoso al riguardo è costituito dal flamen dialis, il sacerdote romano di Giove, che rappresentava in tutta la sua vita il proprio dio: era, come dice Plutarco, una specie di statua vivente di Giove. In generale, comunque, prescrizioni e interdizioni varie, a seconda delle diverse culture, differenziano la condizione sacerdotale da quella della gente normale. È un’“anormalità”, variamente caratterizzata ma sempre caratterizzata, che rende possibile al sacerdozio la sua funzione mediatrice tra umano e divino: il sacerdote è un uomo che però deve farsi diverso dagli altri per accedere a quella diversità assoluta che è il divino. Questa trasformazione viene dovunque ottenuta mediante un rito di consacrazione, il “rito di passaggio” da una condizione normale alla condizione anormale (nel senso di eccezionale) che è propria del sacerdozio.

Ebraismo

Presso gli ebrei non si può parlare di un sacerdozio istituzionalizzato prima della monarchia. Fino a quel momento non esisteva sacerdozio: gli altari per il sacrificio potevano essere costruiti dovunque (Gen 12, 7-8; 13, 18; 26, 25) e il sacrificio era celebrato dal capofamiglia (Gen 22; 31, 54; 46, 1). Durante l’epoca monarchica, templi e sacerdoti erano sottoposti all’autorità del re. Anche se il Tempio poteva interferire negli affari del Palazzo (per esempio, 2Re 11, 4-12), unico rappresentante del popolo davanti a Dio  era il re. Durante il periodo persiano la situazione mutò. La dinastia davidica fu eliminata con la monarchia stessa intorno al 515 a.C. e le funzioni del re passarono ai sacerdoti, fra i quali particolare importanza assunse il sommo sacerdote. La funzione sacerdotale era ereditaria. Problema storico di particolare importanza è il rapporto che intercorreva fra sacerdoti e Leviti. In molti passi della Bibbia  i sacerdoti sono chiamati “figli di Levi” o “Leviti”. Ma in epoca monarchica il levitismo doveva essere un fenomeno, sia pure collegato col culto, ma diverso dal sacerdozio. Questo sembra legato ai santuari di Stato e in particolare a quello di Gerusalemme; l’altro sembra piuttosto legato a santuari di natura diversa (1Re 11, 31). La successione dei sommi sacerdoti da Giosuè (515 a.C.) a Giasone (171 a.C.) sembra ininterrotta. Con il successore di Giasone, Menelao, il sommo sacerdote finì col diventare patrimonio della famiglia dei Maccabei, poi detti Asmonei, che lo tennero fino al 37 a.C. La crisi del sacerdozio legittimo del tempo di Giasone e di Menelao fu probabilmente la causa della formazione dell’essenismo, che fu movimento sadocita. È opportuno pertanto distinguere fra sadocitismo e sadduceismo: i Sadducei sono un partito sacerdotale legato agli Asmonei; i Sadociti sono i “figli di Sadoq”, che ostacolarono sempre la politica e l’ideologia asmonaiche.

Cattolicesimo

Ordinariamente gli scritti del Primo Testamento non qualificano la persona e la missione di Gesù  di Nazaret come sacerdotale. Sarà la Lettera agli Ebrei a riconoscere nell’evento pasquale la nota sacerdotale e sacrificale, ma secondo un significato nuovo, in continuità-discontinuità con l’antica Alleanza . Le vicende pasquali portano a ricuperare l’idea del sacerdozio comune del popolo messianico, un ideale non ancora realizzato. Affermata la fine del culto antico, i testi del Primo Testamento (Gv 4, 23-24; Rm 12, 1-2; 1Pt 2, 4-5) parlano della priorità del “culto spirituale”, un fatto che non esclude i riti dell’iniziazione, della cena, della trasmissione dei ministeri e altri. Le due realtà non si contraddicono, ma si completano. Come il sacerdozio e il sacrificio di Cristo  non si limitano alla croce , ma investono tutta la sua esistenza, così quello di base dei fedeli non è circoscritto agli atti cultuali, ma si estende alla vita. Per le liturgie delle comunità saranno necessari uomini con incarichi specifici, che facciano passare all’atto la capacità sacerdotale nativa. Dopo il periodo d’impostazione iniziale si verranno stabilizzando dei ministri specializzati.

Il ministero ordinato in Occidente

I ministeri ecclesiali si affermeranno in un’organizzazione tripartita: vescovo, presbiteri e diaconi costituiranno il sacerdozio cristiano distinto in tre gradi. All’inizio del II secolo, la regione di Antiochia presenta i ministeri maggiori già strutturati. Perno della comunità, il vescovo concentra in sé le funzioni più importanti. Le controversie teologiche provocano un’attività conciliare a vantaggio della coscienza della collegialità. Il ruolo pubblico che la Chiesa  assume dal IV secolo ne accentua la funzione giuridica a scapito dell’evangelizzazione e di quella pastorale. La diaconia-servizio diventa un tema solo più spirituale. L’idea primitiva di ministero si oscura presto. Già nel III secolo troviamo il neologismo clerus con significato giuridico (da cui il coetusclericorum). Mentre i ministeri minori si riducono di varietà e i restanti divengono i gradini della carriera ecclesiastica, il vocabolario sacerdotale entra nell’uso cristiano. Fino all’epoca carolingia (secoli IX-X) permane un’anfibologia del termine “sacerdote”: dapprima designa il vescovo e poi, nella misura in cui partecipa del suo ministero liturgico, il prete. Più tardi, in seguito all’estendersi del cristianesimo  nelle campagne, nasce la figura del prete come pastore di una comunità più piccola, che gravita intorno a quella urbana del vescovo. Il diacono viene acquistando importanza; anche se di rango inferiore al presbiterato, è a servizio diretto del vescovo e diventa l’amministratore della comunità. Nell’epoca carolingia il sacerdozio rappresenta un potere accanto a quello secolare, e tendenzialmente al di sopra di esso. Assorbendo parecchi impegni mondani, i vescovi si assimilano ai principi feudali, di qui il volersi distinguere con insegne. Per un altro verso, i ministri, divenuti “capi” della Chiesa, riceveranno dal monachesimo  un’impronta ascetica che sta all’origine del celibato ecclesiastico: da questa il sacerdozio assume un’aura di prestigioso isolamento. Divenuto l’uomo del sacro, il prete si tiene in alto su una mistica del sacerdozio che lo vuole ontologicamente superiore ai fedeli. Attraverso una sempre maggiore monopolizzazione degli uffici ecclesiastici, i chierici arriveranno a identificarsi con la Chiesa stessa. Contemporaneamente si assiste a un’involuzione del ministero ordinato, inteso solo più nelle categorie di culto e giurisdizione. Venuta a cadere la spinta missionaria, decade il ministero della Parola. Ritenuti eguali nel potere di consacrare, si concepisce una parità sacramentale tra vescovo e prete, con una differenza puramente giuridica: il vescovo si determina per la giurisdizione, il prete per l’ordine, creando la cancellazione del quadro ministeriale restante. Si rafforza l’idea del sacerdozio come potere personale indipendentemente dalla comunità, che lo collega quasi esclusivamente con l’eucaristia , mentre la Scolastica elabora la dottrina del carattere, identificato con un effetto permanente del sacramento . L’azione pastorale si riduce alla preservazione della fede , ridotta a delle pratiche tenute in piedi dal tradizionalismo ambientale. Mentre finora la comunità locale era l’orizzonte dell’ordinazione, dal XIII secolo il titolo diventerà una rendita, che permetterà “ordinazioni assolute”, cioè per motivi estrinseci, senza riferimento a un servizio pastorale. La Riforma  rimette in discussione l’ecclesiologia e il ministero tradizionale. Alle contestazioni dei riformatori, che rifiutano la sacramentalità dell’Ordine, il Concilio di Trento rispose in forma apologetica; il dibattito sul clero si limitò al decreto De reformatione (1563). Visto in una teologia  fissista, il sacerdozio è definito più come un potere che un dovere. Conformemente all’idea della Chiesa vista come societas perfecta, il vescovo appare come un sovrano religioso al vertice della gerarchia ecclesiastica locale. Tuttavia, dopo il Concilio di Trento si avrà un recupero della spiritualità dei ministeri e del servizio pastorale.

Diritto canonico

Secondo il Codice di Diritto Canonico il sacerdozio consiste nel pieno possesso dell’ordine Sacro proprio dei chierici che, nella gerarchia d’ordine della Chiesa cattolica, hanno raggiunto il grado del presbiterato o addirittura l’episcopato, che ne costituisce l’ulteriore completamento.

Etnologia

Presso molte società di livello etnologico, il ruolo sacerdotale è svolto dalle persone che detengono l’autorità e il potere, in virtù dei quali hanno anche, oltre alla celebrazione dei rituali di culto, la responsabilità di provvedere al mantenimento dell’ordine e dell’equilibrio del gruppo. Nelle società fondate su un sistema di lignaggio o clanico, il più anziano, in quanto capo del lignaggio o del clan, svolge la funzione sacerdotale nella celebrazione dei rituali in onore degli antenati. Presso talune società pastorali dell’Africa esiste una forma di sacerdozio collettivo, esercitato dai membri della classe di età più anziana. In tali situazioni, il sacerdozio non è fonte diretta di privilegi, ma solo di prestigio. Esempi di sacerdozio professionale si riscontrano principalmente in società con strutture socio-politiche complesse e che possiedono credenze di tipo politeistico quali quelle africane delle regioni del golfo di Guinea, quelle polinesiane e quelle di talune popolazioni dell’America precolombiana, come gli aztechi, i maya e gli inca, presso i quali i sacerdoti formavano una classe sociale privilegiata. I sacerdoti professionisti non partecipano direttamente al potere, ma gli forniscono legittimazione e sostegno attraverso la celebrazione dei rituali. Talvolta il sacerdozio professionale è ereditario. Il sacerdozio può essere associato alla pratica della divinazione e dello sciamanismo.