Dizionario del Cristianesimo

A B C D E F G I L M N O P Q R S T V

Introduzione

“Parola di Dio ”, “libro dei libri” e libro “divinamente ispirato”, tanto per i credenti quanto per i non credenti la Bibbia rappresenta nella nostra civiltà, fondata in gran parte sui valori eticie spirituali del giudaismo e del cristianesimo , la scrittura sacra, concetto comune a popoli e culture non necessariamente interdipendenti (dal Corano dell’islam ai Veda del brahmanesimo; dall’Avesta di Zarathuštra al Granth dei Sikh ai Sutra del buddhismo tradizionale). Ma la storia del canone biblico è anche la storia di un lento, non sempre omogeneo processo di “sacralizzazione” di un intero corpus letterario, quello antico-ebraico, considerato sotto la specie di documento giuridico a stabilire una legge esancire un patto (beritdiathkçtestamentum ), di alleanza  tra il “popolo di Dio” (allargato poi cattolicamente al genere umano) e Dio stesso, che si arricchirà nel corso dei secoli di nuove rivelazioni.

Il canone

La Bibbia non è un libro solo, ma una piccola biblioteca di libri tra loro strettamente apparentati, sia per l’origine sia per il contenuto. Per questo la denominazione greca, tà biblìa, “i libri”, passata in latino sotto la forma Biblia, ancora plurale, finì per essere considerata un nome singolare di genere femminile e divenne l’italiano Bibbia. Altro nome comunemente usato è Sacra Scrittura o semplicemente Scrittura. Essa contiene i libri “sacri” per la fede dell’ebraismo e del cristianesimo. Il canone è l’elenco dei libri contenuti in questa raccolta. Esso si presenta diviso in due grandi sezioni, chiamate tradizionalmente Antico Testamento e Nuovo Testamento o, secondo un uso recente, con le denominazioni più neutre di Primo Testamento e Secondo Testamento. La parola Testamento (dal greco Diath-kç) corrisponde all’ebraico Berit, che indica piuttosto un patto, e che qui traduciamo abitualmente con Alleanza. Gli ebrei riconoscono solo l’autorità del Primo Testamento. Dal canone ebraico definitivo furono esclusi, alla fine del I secolo d.C., i seguenti libri: Tobia, Giuditta, la Sapienza, l’Ecclesiastico, Baruc, i due Libri dei Maccabei; inoltre, alcune parti dei Libri di Ester e di Daniele. La Chiesa  cristiana primitiva non li discusse e solo più tardi (IV secolo) vi fu un periodo di dubbi, presto accantonati. Dal XVI secolo invalse presso gli studiosi la denominazione di deuterocanonici (“appartenenti al secondo canone”) per indicare i libri esclusi dal canone ebraico, mentre gli altri vennero chiamati protocanonici. I protestanti, che per il Primo Testamento seguono il canone degli ebrei, chiamarono i libri deuterocanonici apocrifi ; nella Chiesa cattolica, in un secondo tempo si raggiunse l’unanimità sulla loro canonicità. Per i libri protocanonici, si verifica un’ulteriore differenza: i 39 libri del canone cattolico del Primo Testamento che sono compresi in effetti in quella che comunemente si chiama Bibbia ebraica vi si trovano, diversamente divisi o uniti, nel numero tradizionale di 24. Anche per il Secondo Testamento si dà un canone lungo, accettato dai cattolici, e un canone breve, dei protestanti, senza deuterocanonici (Lettera agli Ebrei, Lettera di Giacomo, Lettera di Giuda, II Lettera di Pietro, II e III Lettera di Giovanni, Apocalisse). Il canone della Chiesa cattolica comprende dunque 47 libri del Primo Testamento e 27 del Secondo. Peraltro, oggi tutti i protestanti riconoscono praticamente, per ciò che riguarda il Secondo Testamento, l’intero canone cattolico, sia nel numero sia nell’ordine dei libri. La Bibbia appare inoltre divisa, nell’ambito di ogni singolo libro, in capitoli, e ogni singolo capitolo in versetti. Questa divisione non è primitiva: fu Stephen Langton che verso il 1214 divise la Vulgata negli attuali capitoli. Quanto ai versetti, già gli scritti ebraici li avevano distinti, ma numerandoli solo alla fine dei singoli libri; il primo a notare la numerazione nel margine fu Sante Pagnini nel 1528. Per il Secondo Testamento divenne normativa la divisione in versetti introdotta da Estienne Robert nel 1555.

Primo Testamento

Il Primo Testamento è tradotto in tutte le lingue moderne. Esso rappresenta la prima parte delle Bibbie cristiane ed è il corpo intero della Bibbia ebraica. La presenza o meno di alcuni libri deriva dalle peculiarità del canone delle singole religioni e confessioni (vedi sopra). Oggi è invalso l’uso di tradurre dall’ebraico (preferendolo alla Vulgata latina) tutti quei libri che hanno un originale ebraico conservato dalla tradizione. La scelta dell’ebraico può far credere che si sia passati dal testo della Chiesa cattolica al testo originale; in realtà le cose sono più complesse, perché manca sia una vera e propria edizione critica del testo ebraico, sia un’edizione che affronti globalmente il problema di tutta la tradizione testuale. In termini scientifici, manca un lavoro globale di recensione che permetta il recupero di una buona forma prescristiana del testo.

Testo ebraico

La Bibbia fu scritta quasi interamente in ebraico. Sono in aramaico alcune parti di Daniele (2, 4-7, 28), di Esdra (4, 8-6, 18; 7, 12-26) e un versetto di Geremia (10, 11). Sono in greco i deuterocanonici, anche se la maggior parte di essi è una traduzione dall’ebraico andato perduto (originario certamente greco solo per la Sapienza e per il II Maccabei); le scoperte di Qumran e della Genizah del Cairo ci hanno fornito frammenti anche di alcuni deuterocanonici nella lingua originale, particolarmente vasti per l’Ecclesiastico. Della Bibbia ebraica ci sono restati numerosissimi manoscritti medievali. Poiché l’ebraico scrive solo le consonanti, già dall’VIII secolo invalse l’uso di aggiungere alle consonanti dei segni che indicavano la pronuncia delle vocali e un sistema di accenti che, indicando pause più o meno lunghe, che avevano una funzione simile a quella della nostra punteggiatura. I dotti che fecero questo lavoro furono detti nagdanim, cioè puntatori.
L’insieme dell’opera che tramandava i testi è detta masora cioè “tradizione” e i suoi autori sono detti masoreti. Le scoperte di Qumran forniscono un’idea interessante della situazione del testo ebraico prima della sua fissazione avvenuta in ambienti ebraici palestinesi intorno al 100 d.C. Da questi reperti appaiono numerose varianti.
Dopo una prima edizione a stampa della Bibbia intera fatta dal cristiano Felice da Prato nel 1515 per l’editore Bomberg di Venezia, una seconda edizione fu fatta dall’ebreo Ben Hayyim nel 1525 per lo stesso editore. Con questa edizione il testo sefardita della scuola masoretica di Tiberiade si affermò definitivamente e la Bibbia di Ben Hayyim divenne la base di tutte le edizioni seguenti fino alla seconda edizione del Kittel del 1906. La terza edizione del Kittel del 1926 lasciò il testo di Ben Hayyim per porre alla base un manoscritto ebraico tiberiense del 1008. Con l’edizione della cosiddetta Biblia HebraicaStuttgartensia iniziata nel 1968 e finita nel 1977, il testo dello stesso manoscritto è riprodotto, compresi gli errori evidenti.

Pentateuco samaritano

Il Pentateuco ci è noto anche attraverso la tradizione samaritana. Il resto della Bibbia manca presso i samaritani, perché considerano canonico solo il Pentateuco. Il testo ebraico di questo Pentateuco presenta numerose varianti rispetto a quello giudaico.

Targumim

Con questo nome (targum significa “traduzione”) si designano le varie traduzioni che del Primo Testamento furono fatte in aramaico dagli ebrei, a partire dal I secolo d.C.; particolarmente interessanti sono i targumim palestinesi (dello Pseudogionata frammentario, Neofiti), in quanto derivano da un testo ebraico anteriore all’unificazione. Il loro uso nella storia del testo è reso molto difficile dal fatto che essi, più che tradurre, parafrasano, aggiungendo notazioni teologiche. Sono pertanto utilissimi per conoscere la storia delle interpretazioni della Bibbia.

Testo greco

Particolare importanza per la conoscenza della fase più antica del testo biblico ha la traduzione greca, perché eseguita prima dell’unificazione del testo. Essa è comunemente detta Bibbia dei Settanta, perché, secondo la notizia leggendaria della Lettera di Aristea, sarebbe stata stilata da 72 traduttori che avrebbero lavorato indipendentemente sullo stesso testo scoprendo di aver infine prodotto traduzioni identiche per miracolo. La Bibbia venne tradotta in greco ad Alessandria d’Egitto fra il III e il I secolo a.C.; quello dei Settanta fu il testo su cui la prima Chiesa lesse la Bibbia. La traduzione greca originale fu rivista più volte nel corso dei secoli, sia da parte dei cristiani sia degli stessi ebrei, per ottenere un testo il più vicino possibile a quello ebraico.

Testo siriaco

Va ricordata anche la versione siriaca, che presenta un testo intermedio fra quello dei Settanta e quello ebraico. Essa fu stilata intorno al III secolo d.C. su manoscritti ebraici che erano sopravvissuti al fenomeno dell’unificazione. Non è escluso in certi casi un influsso dei Settanta.

Testo latino

San Girolamo intorno al 400 d.C. tradusse la Bibbia in latino dall’ebraico: è la cosiddetta Vulgata, il testo in cui l’Occidente ha letto la Bibbia fino al secolo passato, quando è invalso l’uso di tradurre dall’ebraico. Fra le traduzioni italiane fatte sulla Vulgata è celebre quella del Martini (1776). Alcune varianti sono attribuibili al fatto che san Girolamo lavorò su un testo latino precedente (Vetus latina). Inoltre, mantenne quei passi in cui l’interpretazione messianica cristiana forzava il senso dell’originale.

Secondo Testamento

La lingua originale del Secondo Testamento, pubblicato tutto tra gli anni 50 e 100 d.C., è il greco. Le conoscenze moderne sull’ambiente e sulla letteratura dell’epoca hanno permesso di risolvere l’annosa questione della lingua del Secondo Testamento le cui caratteristiche apparivano un tempo così singolari. Si tratta sostanzialmente della lingua comune (koinè diàlektos) che si venne a formare spontaneamente, sulla base del dialetto attico, in seguito alla conquista di Alessandro e all’irradiamento della civiltà ellenistica in tutta l’area del Mediterraneo. Come per tutte le opere letterarie dell’antichità, gli esemplari originali sono andati perduti. Le scoperte di papiri succedutesi sino a oggi offrono tuttavia un’idea chiara di quello che era un testo del Secondo Testamento. I testi venivano letti pubblicamente nelle comunità e trasmessi tra le Chiese. Se ne trassero perciò le prime copie, che si diffusero di pari passo con la fede. Nel IV secolo, la Chiesa ormai libera redige i suoi grandi codici su pergamena, contenenti regolarmente tutti gli scritti sacri. Oggetto e contenuto di tutto il Secondo Testamento è un avvenimento cronologicamente e geograficamente circostanziato nelle linee fondamentali.
Tale fatto storico si definisce anzitutto in rapporto a Primo Testamento, del quale si presenta come l’attuazione e il compimento. Il Primo Testamento perseguiva da secoli un miraggio di futuro splendore; verso l’epoca di Gesù  tutta l’attesa appariva concentrata in un’espressione fatidica: il regno di Dio. Ora quello che là era preparazione e inizio, nel Secondo Testamento diventa pienezza e realtà. Questo adempimento è l’oggetto della Buona Novella, che Gesù ha connesso essenzialmente con la sua persona e che gli apostoli  trasmetteranno alle generazioni future. Gli apostoli vedono confermata la realizzazione delle promesse nella persona di Gesù perché “Dio lo ha risuscitato dai morti”. Da questo annuncio, in linguaggio tecnico kerygma, ha inizio la loro predicazione. Il kerygma si prolunga spontaneamente in una paràinesis, cioè in una serie d’insegnamenti morali in vista di una condotta conforme al nuovo stato di vita. In tutto il Secondo Testamento le sezioni parenetiche si alternano con quelle kerygmatiche. Non meno essenziale della paràinesis, e sotto molti aspetti determinante per essa, è la profezia e l’annunzio del futuro, nel quale si risolverà l’economia presente. Si tratta dell’escatologia, il terzo elemento fondamentale nel messaggio del Secondo Testamento. Al pari della paràinesis morale, l’escatologia permea tutti gli scritti del Secondo Testamento e lo conclude con il Libro dell’Apocalisse. Attorno a questo messaggio si è sviluppato ben presto un pensiero teologico approfondito, frutto di meditazione assidua e di elaborazione spirituale della straordinaria esperienza vissuta. Si nota perciò un duplice piano nel contenuto del Secondo Testamento, di cui avevano già coscienza i suoi predicatori e autori: essi infatti distinguono ripetutamente tra insegnamento elementare impartito ai principianti e sapienza superiore alla quale vengono iniziati i perfetti. Gli studiosi moderni designano il fenomeno con il nome di teologia  del Secondo Testamento.

Esegesi biblica

Il carattere religioso della Bibbia

La Bibbia costituisce l’eredità più preziosa di una notevole parte dell’umanità ed è incalcolabile l’influsso esercitato sulla mentalità, la cultura e l’arte della vecchia civiltà europea. Ma la Bibbia è soprattutto un libro religioso. Dio vi si trova nominato migliaia di volte; è al centro di ogni avvenimento e alla radice di ogni concezione. Questo Dio, chiamato con un nome particolare: Jahve (colui che è), è un Essere personale che agisce nella storia, stringe relazioni misteriose con gli uomini e ne dirige gli avvenimenti. I credenti della religione cristiana, e per il Primo Testamento quelli della religione ebraica, ritengono particolarmente vincolante il messaggio biblico, perché per loro il libro che lo contiene è “Sacra Scrittura” o “Parola di Dio”. La spiegazione che danno di questo fatto si riassume nella dottrina dell’ispirazione divina della Bibbia. Secondo questa spiegazione, è Dio che, in circostanze diversissime e a uomini diversi (profeti, agiografi), impiegati come strumenti, ha fatto scrivere questi libri, in modo che Egli stesso ne risultasse l’autore. La convinzione che la Bibbia sia ispirata ha radici antiche, che coincidono con l’inizio della formazione dei suoi libri. In Israele si considera dapprima il libro della Torah di origine divina e poi, in modo simile, anche i libri dei profeti e gli altri scritti. Il termine “ispirazione” non si trova nel Primo Testamento, dove però i profeti e i sapienti sono ritenuti ripieni dello Spirito di Dio, che parla attraverso loro. Il discorso dell’ispirazione si fa esplicito nel filosofo ebraico Filone e nel Secondo Testamento l’ispirazione è esplicitamente riconosciuta non solo al momento in cui si proferisce la Parola di Dio, ma anche alla sua trasmissione scritta. Una riflessione sistematica su questo dato, posseduto in modo pacifico e mai messo in discussione, da parte della teologia cristiana ebbe origine in questi ultimi secoli. Approfondendo maggiormente il concetto di “strumento” e applicando la dottrina di san Tommaso d’Aquino sulla causa principale (in questo caso Dio) e la causa strumentale (lo scrittore sacro), i teologi e i biblisti misero in evidenza che lo strumento ha una sua causalità propria distinta da quella dell’agente principale e da questi assunta per ottenere l’effetto totale. Così si ebbe la chiave per risolvere i difficili problemi offerti dalla dottrina dell’inerranza. Lo strumento umano opera con la sua attività propria, così com’è, con le proprie caratteristiche individuali, e anche con i propri limiti. In conclusione, per il credente la Bibbia è non soltanto un libro religioso, ma un libro divino, la Parola di Dio rivolta all’umanità. Nel tempo stesso è anche un libro profondamente umano, parola di uomini di un determinato tempo, che furono assunti a essere strumenti di Dio.