Dizionario del Cristianesimo

A B C D E F G I L M N O P Q R S T V

Introduzione

Il cristianesimo  riconosce a un tempo al termine Chiesa, esempio tipico di compresenza di accezioni diverse veicolate da uno stesso elemento significante, il significato di “luogo di culto” (tempio, naòs o Kyriake [oikìa], [casa] del Signore, da cui per esempio il tedesco Kirche e l’inglese church), “assemblea dei fedeli” (sinassi, ekklesìa) e, per estensione, “comunità dei cristiani”, virtualmente universale (secondo le concezioni di tipo imperialistico-statalistico maturatesi in seno alle tradizioni storiche, pur teologicamente fondate, proprie del cattolicesimo o delle Chiese ortodosse ), designante di fatto appartenenti a una determinata confessione religiosa (come nell’interpretazione più diffusa nell’ambito dell’ecumenismo  di matrice riformata, o nel protestantesimotout court).

La Chiesa: comunità dei cristiani

Il significato di Chiesa si precisa in base al suo uso negli scritti del Primo (Nuovo) Testamento. Tra gli evangelisti  solo Matteo (16, 18 e 18, 17) usa due volte la parola Chiesa, più frequente è la ricorrenza negli Atti degli Apostoli  (5, 11; 8.1; 9, 31; 12, 1 e 5; 15, 41 e 19, 39) dove indica sia singole comunità locali di cristiani, sia gruppi di tali comunità. In senso accentuatamente dottrinale Chiesa è impiegata da Paolo con notevole frequenza nelle sue lettere: anche in Paolo si trova sia l’accezione locale sia quella più generale, che indica tutti i cristiani, ma è ancora più significativa la sua concezione per cui “il corpo di Cristo  è la Chiesa” (Col 1, 24 e Ef 1, 23). Questa molteplicità deve mettere in guardia dalla pretesa di comprendere in un’unica definizione una realtà tanto poliedrica e complessa. Occorre distinguere tra la Chiesa come realtà universale che comprende tutti i cristiani, e le singole Chiese, le quali, ancorché pretendano talora di essere la vera e unica Chiesa sono solo importanti ma parziali realizzazioni della Chiesa. La Chiesa dunque è una realtà storica multiforme e differenziata attraverso i tempi e i luoghi, caratterizzata dalla fede in Gesù Cristo come figlio di Dio  e nella potenza redentrice della sua morte e risurrezione  e tesa all’attualizzazione del messaggio evangelico. È importante distinguere la Chiesa dal regno di Dio : infatti, il regno si realizzerà solo dopo la seconda venuta di Gesù  e il giudizio, al quale anche la Chiesa sarà sottoposta. La Chiesa, che ripete l’annuncio fatto dal Cristo (Mc 1, 15), ne costituisce in terra il germe e l’inizio (Lumen gentium 1, 5). Si è distinto anche tra una Chiesa invisibile, come unione mistica dei cristiani senza necessità di istituzioni, e una Chiesa visibile, come unione storica dei cristiani istituzionalmente organizzati, e anche tra Chiesa trionfante, comprendente tutti i beati, e Chiesa militante, costituita dai cristiani viventi.
La Chiesa è il risultato di un’iniziativa di Gesù e della corrispondenza da lui ottenuta tra gli uomini. Secondo la dottrina cristiana, la Chiesa non è una realtà accessoria e secondaria rispetto al rapporto di salvezza che interviene tra ciascun uomo e Dio; al contrario, vi e la coscienza che la comunione d’amore tra il singolo uomo e Gesù implica per sua natura un rapporto tra i cristiani e di tutti i cristiani con gli altri uomini. In tale prospettiva si può persino affermare: extra ecclesiam nulla salus, fuori della Chiesa non vi è salvezza. Ciò non significa che ci si può salvare solo mediante l’appartenenza sociologica a una Chiesa cristiana, ma piuttosto che la Chiesa è un momento fondamentale dell’itinerario cristiano.

L’età apostolica e subapostolica

La dottrina sulla Chiesa è venuta formulandosi molto lentamente durante i secoli, soprattutto attraverso la concreta esperienza delle diverse comunità e l’incessante reinterpretazione che esse facevano della Bibbia  e in primo luogo del Primo Testamento.
I primi cristiani furono ebrei che prestarono fede all’affermazione di Gesù di essere il figlio del Dio vivente, cioè il Messia . Agli ebrei della Palestina era primariamente rivolto l’annuncio di Gesù; in mezzo a loro egli aveva scelto i propri amici, era vissuto, aveva sofferto, era stato crocifisso; davanti ai loro occhi era morto, era apparso dopo la risurrezione;  infine, era asceso al Padre. Anche il fondamentale evento della comunicazione dello Spirito Santo , la Pentecoste , era avvenuto nella Gerusalemme ebraica.
Dopo la scomparsa di Gesù, fedeli al suo mandato, gli apostoli  (i dodici e altri) iniziarono cautamente, poi via via con maggiore coraggio, a ripetere l’annuncio della salvezza portata dal Cristo nelle varie regioni della Palestina e presso le numerose comunità ebraiche esistenti nel Mediterraneo centrorientale. Così anzitutto a Gerusalemme, sotto la guida dell’apostolo Giacomo, poi in un numero sempre maggiore di centri della Palestina, della Grecia, dell’Asia Minore, dell’Italia, dell’Africa settentrionale gli ebrei convertiti alla fede  in Gesù formano gruppi dapprima distinti e poi separati dalle originarie comunità ebraiche. Sono le prime Chiese, accanto alle quali la predicazione apostolica, e specialmente quella di Paolo, suscita gruppi cristiani costituiti da gentili  (gli appartenenti alle gentes, cioè i popoli diversi dal popolo ebraico) convertiti. Soprattutto attraverso gli Atti degli apostoli apprendiamo che i cristiani si raccoglievano in gruppi intorno agli elementi centrali dell’insegnamento di Gesù: l’accettazione dell’annuncio di salvezza, alla luce del quale comprendere l’Antico Testamento, il “patto” di Dio con il suo popolo; il battesimo , nel quale partecipare alla morte e risurrezione del Cristo; l’eucaristia  in comune, nella quale rinnovare la cena del giovedì santo tra Gesù e i suoi, e infine la preghiera . In questi atti le Chiese si edificano e realizzano un’intensa comunione di carità. Esse non s’impegnano esplicitamente nel rapporto con il mondo in mezzo al quale vivono, dominate essenzialmente dall’attesa del prossimo ritorno del Cristo per inaugurare l’età nuova e definitiva. Uno dei problemi dominanti della Chiesa nascente riguarda il suo rapporto con il giudaismo tradizionale, che si rifiutava di riconoscere in Gesù il Cristo. La rapida diffusione del cristianesimo, anche tra i “gentili”, ebbe l’effetto di accelerare un chiarimento sull’autonomia delle Chiese cristiane rispetto alle comunità ebraiche, che culminò nel cosiddetto Concilio  di Gerusalemme (49 ca. d.C.), quando fu deciso che non fosse imposta la circoncisione ai convertiti provenienti dal paganesimo.
Nella sua rapida e larghissima diffusione, il cristianesimo venne in contatto con situazioni umane molto diverse e con differenti assetti sociali: queste condizioni influenzarono direttamente la fisionomia delle Chiesa in via di formazione, le quali nacquero infatti soprattutto nei centri urbani e furono composte abbastanza a lungo da appartenenti a ceti bassi o medi. Le Chiesa nate in aree marginali (Egitto e Asia Minore) o estranee (Siria, Mesopotamia, Persia) al mondo ellenistico vennero a contatto con tradizioni culturali e sociali diverse da quelle greco-romane e ne ricevettero interessanti influssi. Sappiamo che all’interno delle Chiesa si manifestarono molto presto funzioni spirituali (carismi : 1Cor 12, 28-31) e organizzative (ministeri: At 6, 2-5), tutte dipendenti dall’unico apostolo delle anime , Cristo, e riferite dalla Chiesa alla volontà di lui. La predicazione itinerante degli apostoli e di altri discepoli e insieme la mobilità dei cristiani aprì molto presto il problema dei rapporti tra le diverse Chiese, prima come rapporti di comunione e carità sotto forma, per esempio, di ospitalità, poi come rapporti di solidarietà di fronte alle due grandi minacce delle persecuzioni e delle eresie . I rapporti tra le Chiese si svilupparono principalmente mediante contatti tra coloro che all’interno di ciascuna Chiesa presiedevano la cena e che erano indicati come gli anziani (presbýteroi, preti) o gli ispettori (epískopoi, vescovi). Questi contatti accrebbero la coscienza che le Chiese non solo non erano estranee le une alle altre, ma tutte insieme costituivano la Chiesa. Da un punto di vista religioso le Chiese ebbero sin dall’inizio una fisionomia aperta, riconoscendosi costituite di “santi” e di peccatori e rifiutando di caratterizzarsi come comunità chiuse di eletti, separate dagli altri.
Sin quando i cristiani furono ritenuti una setta ebraica furono tollerati, ma quando se ne percepì la specifica natura attraverso lo stretto vincolo di comunione che li legava, la pratica del sacramento  dell’eucaristia, il rifiuto di prestare servizio militare e in generale di assumere impegni sociali e politici sino al rifiuto del culto pubblico agli dèi e all’imperatore, si aprì il periodo delle persecuzioni, iniziato nel 64 da Nerone e proseguito con ondate successive sino a Decio (249-251), Valeriano (257-258) e Diocleziano (303-304). La persecuzione violenta dei cristiani non raggiunse lo scopo di bloccare la diffusione del cristianesimo anzi, ne rinforzò la fede mediante la testimonianza dei martiri . Questa situazione stimolò le Chiesa a formulare per gli aspiranti a entrarvi (catecumenato) delle brevi e sintetiche espressioni della fede cristiana, mentre i cristiani colti riaffermavano la verità del cristianesimo con scritti apologetici (Giustino, Tertulliano).
Quando, verso l’anno 200, le Chiese si estendono dalla Francia meridionale all’Italia e alla Grecia, dall’Asia Minore all’Africa settentrionale, si manifestano i primi sintomi di difficoltà dottrinali sia rispetto a posizioni eretiche, come quella di Montano, sia rispetto a differenze su argomenti comuni, come la data di celebrazione della Pasqua. Soprattutto ad Alessandria, uno dei massimi centri culturali dell’epoca, si esprime lo sforzo di una scuola cristiana per far fronte alla grande cultura ellenistica (Clemente, Origene). Un nuovo e maggiore problema dottrinale suscitò la predicazione di Ario (arianesimo ), iniziata nel 318. Il cristianesimo era però ormai capace di resistere a tensioni interne ed esterne e di richiamare la maggioranza degli uomini più significativi di quei secoli. Ne è testimonianza la serie di vescovi di grande statura pastorale e di scrittori di alto livello teologico la cui opera venne indicata come patristica, essendo essi i "Padri" della Chiesa .

La tolleranza di Costantino e la svolta conseguente

Da tutti questi elementi fu condizionata la decisione, cui pervenne l’imperatore Costantino, di rovesciare definitivamente la politica dell’Impero romano verso i cristiani; egli incontrò il collega Licinio a Milano (313), ed emanò un programma di tolleranza a favore dei cristiani, l’“editto di Milano”. Tale atto ebbe effetti incalcolabili per le sorti delle Chiese nel mondo greco-romano: infatti, la decisione di Costantino non si limitò a dare alla Chiesa una condizione di pace, ma fece in breve tempo della Chiesa cristiana la Chiesa imperiale. Nel 314 l’imperatore mise a disposizione del vescovo di Roma il Laterano, che sarebbe stato la residenza pontificia e avrebbe costituito il germe dei possessi temporali dei papi  e della loro autorità politica, particolarmente dopo il trasferimento della capitale imperiale da Roma a Costantinopoli (330). Alcuni secoli dopo, intorno alla donazione del Laterano fu costruita la falsa donazione di Costantino a papa Silvestro, per dare un fondamento storico al potere temporale. La nuova situazione della Chiesa si manifestò nella costruzione di edifici per il culto in concorrenza con i templi pagani, nell’organizzazione delle Chiese secondo il modello gerarchico dell’Impero (province, diocesi ecc.), nel riconoscimento all’imperatore di una speciale posizione nella Chiesa, per cui lo stesso Costantino convocò e presiedette nel 325 a Nicea la prima riunione dei capi di tutte le Chiese dell’Impero (I Concilio ecumenico), allo scopo di affrontare l’eresia ariana e ridare pace alla Chiesa e compattezza all’Impero. La decisione di Costantino ebbe effetti importanti anche sulla vita dei cristiani all’interno delle singole Chiese, modificando il carattere del culto che assunse forme pubbliche; l’atteggiamento verso la realtà politico-sociale divenne tendenzialmente positivo, con la partecipazione agli uffici pubblici e all’esercito; l’organizzazione delle Chiese tese a uniformarsi secondo uno schema per cui a capo di ciascuna Chiesa stava un vescovo, assistito da un gruppo di presbiteri. Questo imponente rovesciamento di condizioni e di orientamenti avvenne in tempi relativamente brevi e senza suscitare resistenze, eccettuata quella che si espresse nel rifiuto radicale di piccoli gruppi di cristiani, i quali costituirono nel deserto comunità nuove di forte impegno penitenziale e aliene da qualsiasi compromissione sociale e politica (Antonio e Pacomio); si trattava delle prime comunità monastiche (monachesimo ). In questi decenni la Chiesa di Roma, che vantava il martirio degli apostoli Pietro e Paolo, cominciò ad acquistare un’importanza speciale nell’ambito della comunione ecclesiale, tanto più che mentre le Chiese d’Oriente costituirono ancora a lungo il centro dell’elaborazione teologica, Roma fu il centro dell’espansione missionaria verso i “barbari”; un’area fiorente verso la fine del III secolo era costituita dalle Chiese africane, dove Agostino era divenuto vescovo di Ippona. In Africa un secolo prima era vissuto il vescovo Cipriano, il quale aveva formulato alcuni tratti di una teologia  della Chiesa come Chiesa universale, piuttosto che come concreta comunità locale, come aveva sostenuto Ignazio d’Antiochia. Preannunciato dalla grande controversia sulla maternità divina di Maria , culminata nel Concilio ecumenico di Efeso (431), si aprì nel V secolo un acceso dibattito sulla natura del Cristo, che portò alla nascita del monofisismo, condannato come eresia nel IV Concilio ecumenico di Calcedonia (451), con la conseguente separazione di un gruppo di Chiese di cultura non greca: siriache, armene, copte, le quali peraltro avrebbero poi mantenuto intatto il patrimonio cristiano. Tale separazione, tuttavia, non mancò di impoverire il cristianesimo ortodosso, privato dell’apporto di queste culture. Intanto in Occidente si realizzava la penetrazione missionaria in Irlanda, il rafforzamento della funzione guida della Chiesa di Roma e l’introduzione, a opera di Benedetto da Norcia, del monachesimo, che acquistò presto grande prestigio, come testimonia la fondazione nel 529 del monastero di Montecassino; verso il 540 Benedetto diede al monachesimo occidentale la Regola.
Sgretolatosi l’Impero Romano d’Occidente, la Chiesa è spinta ad assumere in questa parte del mondo funzioni di supplenza della struttura civile e politica. Verso la fine del IV secolo divengono cristiani i Visigoti, inizia l’evangelizzazione dell’Inghilterra e poco più tardi è la volta dei Longobardi. Per tutte queste nuove Chiese, Roma è la “matrice” della fede e ciò comporta un suo prestigio sempre maggiore, che si esprime anche in elaborazioni dottrinali sulla qualità del successore di Pietro del vescovo di Roma. Da un altro punto di vista, l’ingresso nella Chiesa di popoli tanto diversi porta con sé conseguenze sensibili nelle concrete modalità della vita cristiana. Anzitutto il trasferimento a Costantinopoli della capitale accelera la scomparsa dall’Occidente del greco, sostituito dal latino anche nella liturgia , mentre la conclusione delle persecuzioni estingue praticamente il fenomeno del martirio, aprendo la via a un più esteso culto dei santi, e favorisce un assetto stabile delle Chiese. In questi secoli le vere e proprie celebrazioni liturgiche si svolgono solo nella chiesa dove il vescovo ha la sua cattedra (cattedrale) e solo sotto la sua presidenza; egli solo consacra l’eucaristia, che poi viene inviata alle chiese minori, dove il clero  la distribuisce ai fedeli. È in questo periodo che inizia la clericalizzazione della Chiesa. Ciò consiste anzitutto nell’esclusiva destinazione di alcuni cristiani ai ministeri ecclesiastici: le grandi possibilità economiche aperte dalle donazioni pie consentono a questo clero di vivere senza esercitare un lavoro. D’altra parte il senso gerarchico della struttura sociale, che porterà al feudalesimo, favorisce l’identificazione in seno alle Chiese di capi permanenti, differenziati dai membri ordinari in modo sempre più accentuato. Il monachesimo, d’altronde, aveva espresso un’istanza di perfezione ascetica e di separazione dalla normale condizione cristiana mediante i consigli evangelici (povertà, castità e obbedienza), istanza che aveva presto guadagnato grande prestigio. Più tardi tutto ciò sarà fissato nell’affermazione secondo la quale vi sono tre tipi di cristiani: i laici, i chierici e i monaci. Con ciò la Chiesa accettava una distinzione che sarebbe divenuta sempre più profonda e rigida, al punto da far ritenere che Chiesa e clero fossero sinonimi. Dal canto suo il monachesimo costituiva un polo d’attrazione nelle campagne, mentre le Chiese erano ancora prevalentemente cittadine: si costituiva così una Chiesa lontana dal vescovo e dipendente spiritualmente ed economicamente dal monastero. In larga misura questi stessi fenomeni si manifestano anche nelle Chiese orientali di lingua greca, dove però il potere politico resta nelle mani dell’imperatore, sia pure con un’accentuata tendenza a interferire nella vita delle Chiese. In ogni caso, in Oriente è ancora in atto un marcato policentrismo data la presenza di diversi centri cristiani (i patriarcati di Gerusalemme, Antiochia, Alessandria, Costantinopoli), anche se è sempre più insistente la pretesa della città sede imperiale di godere di prerogative speciali (“nuova Roma”). Nei secoli tra il VI e l’VIII, la Roma papale diviene definitivamente il principale centro di potere dell’Occidente, anche a causa del declino della Chiesa africana, travolta dalle invasioni. Ciò alimenta all’interno lotte per il potere, accentrate intorno all’elezione papale, che nel sinodo  lateranense del 769 si cerca di sottoporre a norme di garanzia, e, all’esterno, una tensione sempre maggiore con Costantinopoli, che si manifesta soprattutto nelle aree dell’Italia meridionale e in quelle dell’Illirico e della Moravia, nuove direttrici di sviluppo dell’evangelizzazione, che Roma vorrebbe sottrarre all’influenza di Costantinopoli. I rapporti tra i due grandi centri religiosi e politici risentono del progressivo distanziarsi dell’Occidente dall’Oriente quanto a usi, mentalità, criteri di giudizio. Soprattutto con il IX secolo le Chiese orientali accusano quelle occidentali di usi giudaizzanti (pane non fermentato per l’eucaristia), d’infedeltà ai grandi concili (introduzione del Filioque a modifica del Simbolo  niceno-costantinopolitano), di rottura del rapporto di comunione tra Chiese sorelle con l’affermazione di un primato della Chiesa romana.

Dall’incoronazione di Carlo Magno a san Bernardo

Tali tensioni si aggravano per la decisione di papa Leone III di incoronare il barbaro Carlo Magno imperatore a Roma (800). Questo atto venne interpretato in Oriente come un autentico tradimento dell’Occidente e non fu l’ultima causa del contrasto esploso tra il patriarca  costantinopolitano Fozio e Roma (867-869). La formazione di grandi Chiese in tutta Europa ebbe l’effetto di distanziare sempre più l’Occidente dall’Oriente, tanto più che in Occidente si affermava un assetto sociale e politico molto particolare: il feudalesimo. Un altro grande fattore unitario di quest’area fu il diritto romano, a cui si andava affiancando il diritto canonico, come prodotto delle decisioni dei vescovi e soprattutto di quello di Roma. Sempre su iniziativa del vescovo di Roma, i vescovi erano periodicamente convocati, generalmente in Laterano nel periodo pasquale, per discutere e decidere problemi relativi a tutta la Chiesa occidentale.
Comunque, nei secolo IX e X sono ancora vive e feconde le tradizioni delle Chiese locali, specialmente delle più autorevoli come Milano e Ravenna in Italia, Toledo in Spagna, Parigi in Francia. Ciò si esprime nel consolidamento di riti liturgici locali, nel diritto di elezione del vescovo da parte del clero locale o di una sua categoria privilegiata (capitolo), nell’uso di decidere le questioni relative a diverse Chiese della medesima regione mediante riunioni di tutti i vescovi interessati (concili o sinodi locali). In questo stesso periodo si manifestano però sintomi allarmanti di decadenza che prendono presto due nomi significativi: concubinato e simonia. Con il primo si indica l’inosservanza da parte dei sacerdoti del celibato, introdotto in Occidente sulla scia dei monaci, e con simonia la concessione di beni spirituali o di cose sacre contro versamento di denaro. Tale crisi derivava dalla stessa condizione di privilegio del clero e, insieme, dall’imponente compromissione patrimoniale della Chiesa, che ne faceva a tutti i livelli un fattore determinante dell’assetto economico e perciò oggetto di ambizioni, cupidigie, inframmettenze da parte di quanti ambivano al potere. La reazione a questa situazione fu promossa nella prima metà del XI secolo dal monachesimo franco, sebbene fosse anch’esso titolare di una cospicua posizione economica (Cluny). Un gruppo di uomini di grande statura religiosa e politica (Umberto da Silva Candida, Pier Damiani, Brunone di Toul, Ildebrando da Soana) s’impegnò a promuovere una riforma della Chiesa. Nacque così il movimento della riforma detta poi “gregoriana”, da Gregorio VII, il più famoso dei suoi esponenti. Esso aveva una visione completamente verticale della Chiesa, il cui capo era costituito dalla Chiesa romana e le membra da tutte le altre Chiese. In tale prospettiva questo gruppo riuscì a occupare le posizioni decisive della stessa Chiesa romana, giungendo a conquistarla con l’elezione a papa prima di Brunone (Leone IX), poi di Ildebrando (Gregorio VII). In questi anni si aprì un nuovo conflitto tra Roma e Costantinopoli, durante il quale il patriarca Michele Cerulario fu affrettatamente scomunicato (1054) con il risultato di rompere irreparabilmente i rapporti tra le due Chiese e i mondi che esse rappresentavano. Proprio nei decenni precedenti era avvenuta l’evangelizzazione dell’Oriente slavo e della Russia, così che queste Chiese non ebbero praticamente mai un rapporto di comunione con la Chiesa romana. Consumato lo scisma  con l’Oriente, la riforma gregoriana fu libera di guidare le Chiese occidentali non solo nella lotta alla simonia e al concubinato, ma anche in una profonda modificazione nel loro assetto generale, con l’accentramento a Roma delle responsabilità relative alle Chiese, le quali erano ridotte a succursali della Chiesa universale guidata dal papa e dai cardinali. A partire dal 1059, l’elezione del vescovo di Roma viene affidata esclusivamente ai cardinali. Il collegio cardinalizio avrà sempre più la funzione di raccogliere intorno al papa i prelati più autorevoli della cristianità, costituendo con lui il vertice della Chiesa universale, che comprende ormai indistintamente tutti i battezzati di qualsiasi luogo. All’interno della Chiesa occidentale, compatta e accentrata, si accende ora la lotta per l’egemonia tra il papa e l’imperatore: l’urto si protrarrà per secoli perdendo sempre più significato religioso e configurandosi come una lotta per il potere. I momenti di tregua sono costituiti principalmente dalle crociate. È difficile dire sino a che punto questi fatti egemonizzassero l’attenzione dei cristiani comuni e ne assorbissero l’impegno religioso. La dimensione dottrinale del cristianesimo sfuggiva più che mai all’uomo comune, ignorante, incapace di leggere, estraneo alla lingua latina. La catechesi  si affidava sempre più alla parola e alle immagini che decoravano le chiese e costituivano il grande catechismo per gli indotti. La frequenza ai sacramenti è molto rarefatta e anche la messa  perde rilievo rispetto alla capacità di attrazione della predicazione o di altre liturgie popolari. Il riunirsi in chiesa o sulla piazza intorno a un predicatore costituirà a lungo l’unica occasione sociale, soprattutto per i ceti più modesti. Si assiste abbastanza spesso a una ripresa di pratiche superstiziose magiche o idolatriche di origine pagano-contadina. Da un punto di vista esterno tutta la vita dell’uomo medievale è scandita da riferimenti cristiani, come il suono della campana della chiesa, l’alternarsi dei tempi liturgici, con periodi di astinenza o digiuno, l’impulso o la paralisi della dinamica sociale in rapporto a fatti come le processioni, i pellegrinaggi, le scomuniche  o gli interdetti. L’inquadramento dell’intera vita di tutti nell’organismo ecclesiastico, ancora più accentuato dopo la redazione del Decretum di Graziano (1140 ca.), da un lato diluiva l’importanza della Chiesa come comunità cristiana a profitto di gruppi religiosi spontanei (confraternite) e da un altro lato alimentava sia uno stillicidio di eremiti, che rifiutavano ogni rapporto sociale, sia ricorrenti manifestazioni di millenarismo o, più propriamente, di speranza escatologica. Da queste reazioni alla situazione dominante si giungeva talora sino a posizioni giudicate eterodosse, spesso tanto per il loro contenuto dottrinale (per esempio, negazione della presenza reale nell’eucaristia o rifiuto del sacerdozio ministeriale) quanto per la loro anomalia sociale. Spiccano in questa situazione statica alcune personalità eccezionali come Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) o Gioacchino da Fiore (1145-1202).

Da san Francesco ad Alessandro VI

Un tentativo di rinnovamento dall’interno della cristianità, favorito dalla dinamica economico-sociale della fine del XII secolo, è promosso quasi contemporaneamente dallo spagnolo Domenico di Guzman (1170-1221) e dall’italiano Francesco d’Assisi (1181-1226) mediante la fondazione di gruppi di predicatori il primo, di spirituali il secondo: l’iniziativa di Francesco e di Domenico ebbe un successo enorme, attirando a sé un gran numero di aderenti e suscitando un’ondata di fervore religioso. Soprattutto le intenzioni di Francesco: povertà, fraternità tra laici, umiltà, lavoro erano rivoluzionarie rispetto allo stile tradizionale della vita “religiosa” e davano voce a istanze che da tempo fermentavano negli strati più sensibili del popolo (per esempio, i penitenti). Il successo dei nuovi “frati ” suscitava anche delicati problemi relativi alla struttura della Chiesa. I nuovi Ordini non s’inquadravano nelle parrocchie né nelle diocesi, anzi tendevano a creare proprie chiese accanto ai “conventi”, costruiti all’interno delle città. La predicazione vivace e lo stile spirituale dei mendicanti, più vicini alla sensibilità generale, attirò grandi folle alle loro chiese ed essi trovarono appoggio presso il papa contro le pretese di controllo avanzate dalle Chiese locali. Onorio III approvò le regole dei due nuovi Ordini, esentandoli dalla soggezione ai vescovi e facendone così importanti e zelanti strumenti delle direttive romane su tutta la Chiesa. Tale funzione fu adempiuta ancora meglio quando fu deciso che tutti i membri dei nuovi Ordini ricevessero il sacerdozio e quando, soprattutto i Domenicani, si fecero promotori di un generale rinnovamento della teologia. Tale rinnovamento aveva lo scopo di adeguare la riflessione teologica, sviluppatasi principalmente in ambienti monastici, alla nuova cultura che andava affermandosi nelle università, da poco istituite. Proprio presso le università i mendicanti impiantarono i loro studi, dove venne elaborato un nuovo modo di far teologia, meno direttamente influenzato dalla Bibbia e molto sensibile alla rigorosità del metodo razionale e al sistema filosofico di Aristotele. Si affermò così la Scolastica, che ebbe nel domenicano Tommaso d’Aquino (1226 ca.-74) il massimo esponente; essa, dopo contrasti anche aspri, divenne la teologia dominante nella Chiesa occidentale e mise fine al pluralismo teologico, che era un aspetto del più ampio pluralismo ecclesiale. Come già la teologia precedente, anche la Scolastica non elaborò una vera e propria dottrina sulla Chiesa; peraltro essa sviluppò a fondo una teologia del papato, anche sotto l’urgenza dei grandi conflitti con Federico II prima e con Filippo il Bello poi. Il papato costituiva sempre uno dei massimi centri di potere dell’Occidente ed esercitava ormai un’indiscussa funzione direttiva su tutte le Chiese locali. In contrasto con tutto ciò parve la lunga “cattività avignonese” (1309-78) durante la quale la sede del papato passò, sotto l’influsso della Francia, ad Avignone. Perciò fu salutato con esultanza il ritorno a Roma della sede pontificia. Ma proprio in coincidenza con un evento tanto atteso, si aprì nel papato e nella Chiesa una crisi gravissima (scisma). La presenza di due papi e l’impossibilita di un riconoscimento unanime di un solo papa gettò la Chiesa in una crisi, resa ancor più drammatica dall’importanza sempre maggiore riconosciuta al papato negli ultimi secoli. In tale situazione vennero formulate da varie parti molteplici proposte di soluzione. Dovettero passare anni di polemiche, di confusione, di disorientamento per i cristiani prima che la convocazione del Concilio di Costanza (1414-18), sostenuto da un’acuta coscienza dottrinale e appoggiato dalla fattiva autorità dell’imperatore Sigismondo, aprisse la via a una conclusione. Tale Concilio riuscì a imporre l’eliminazione, mediante dimissioni o deposizione, dei contendenti al soglio pontificio, divenuti nel frattempo tre, e a far accettare come unico legittimo vescovo di Roma il nuovo eletto: Martino V. Ciò fu possibile per l’adozione da parte del Concilio della dottrina conciliarista, con la quale l’assemblea si riconosceva, in quel frangente, superiore al papa. Oltre a ciò, il Concilio confermò la condanna dell’inglese Wycliffe e pronunciò quella dei boemi Jan Hus e Girolamo da Praga; non venne invece affrontata la riforma della Chiesa, e solo qualche aspetto fu regolato dai “concordati” intervenuti nel 1418 tra Martino V e le principali nazioni. Al di là della crisi del papato e dello scisma conseguente, la vita religiosa in Europa continuava a svolgersi sotto l’egemonia dei grandi Ordini mendicanti (Francescani, Domenicani, Agostiniani, Serviti), ma i fermenti nuovi tendevano a manifestarsi in forme più libere, meno condizionate dalla spiritualità e dalla teologia del Medioevo. Il movimento più significativo ebbe origine nei Paesi Bassi alla fine del Trecento e prese il nome di “Fratelli della vita comune”: durante il Quattrocento ebbero un forte influsso in tutta Europa, anticipando vari aspetti dell’Umanesimo cristiano e dello stesso protestantesimo.
Il papato dopo Costanza s’impegnò a riacquistare il proprio prestigio e prese l’iniziativa della riunificazione con la Chiesa di Costantinopoli, d’altronde in piena coerenza con la politica antimusulmana sempre svolta da Roma. A tale scopo un nuovo Concilio si riunì a Basilea nel 1431 e fu trasferito poi nonostante violente polemiche e il rischio di un nuovo scisma a Ferrara e a Firenze. L’unione, sancita dal Concilio, non ebbe in realtà alcun effetto, sia per l’opposizione dei monaci e del basso clero greci, sia per la sopravvenuta occupazione della stessa Costantinopoli da parte dei turchi musulmani (1453). Ciononostante il prestigio politico del papato romano conobbe una sensibile ripresa, che si manifestò nel favore concesso dai pontefici a uomini di cultura e d’arte nel quadro del nascente Umanesimo; nello stesso tempo i papi si credettero liberi di praticare un nepotismo sempre più clamoroso, associato allo spregio della morale comune sia a livello personale sia a livello della vita ecclesiastica: ne fu esponente tipico, ma non unico, Alessandro VI Borgia.

Riforma della Chiesa e Riforma protestante

Mentre la società europea si avviava a un profondo rinnovamento economico, sociale e politico, la Chiesa, benché fosse almeno altrettanto bisognosa di rinnovamento, trovò la strada della propria riforma sbarrata dalla resistenza opposta dagli interessi del clero, moralmente e culturalmente decaduto, saldati con le istanze conservatrici della teologia tradizionale. Il possente blocco storico formatosi in tal modo impedì lungo tutto il XV secolo e la prima metà del XVI che fosse affrontata con il vigore e l’impegno necessari la riforma generale della Chiesa. Di conseguenza, abusi di ogni sorta divennero sempre più frequenti e scandalosi, tanto più che essi investivano ormai la stessa struttura portante (predicazione, catechesi, sacramenti) pregiudicando la vita religiosa delle comunità cristiane. Si ebbero reazioni di ogni tipo a tale stato di cose: pubbliche e polemiche, come quella di Girolamo Savonarola, giustiziato a Firenze nel 1498, silenziose e impegnate nell’autoriforma, come quella di Paolo Giustiniani, riformatore dei Camaldolesi e della vita eremitica, di natura teologico-culturale, come quella di Erasmo da Rotterdam (1466-1536). La Chiesa nel suo insieme e nei suoi organi responsabili si mostrò però refrattaria a tutti i tentativi di riforma: ne fu simbolo il fallimento del V Concilio Lateranense (1512-17). Proprio sei mesi dopo la stanca conclusione del Concilio, Martin Lutero (1483-1546) prendeva posizione contro la predicazione delle indulgenze, denunciando, insieme, molti aspetti della decadenza morale e teologica della Chiesa. L’eco della presa di posizione di questo sconosciuto fu enorme; in realtà, il fondo della posizione del giovane frate tedesco non riguardava tanto la riforma della Chiesa, quanto piuttosto il convincimento che il Dio cristiano è un Dio di misericordia e di amore piuttosto che un giudice severo. Partendo da questa certezza, Lutero coglieva i limiti angusti della predicazione cristiana e denunciava le innumerevoli infedeltà consumate dalla Chiesa romana rispetto ai criteri dati da Gesù e tramandati nel Primo Testamento. I tedeschi si riconobbero nelle posizioni di Lutero nella misura in cui esse implicavano il superamento di un legalismo sempre più soffocante, la rivendicazione di un’autonomia della Chiesa tedesca rispetto alle vessazioni della Curia romana e, infine, la possibilità di mettere le mani sui cospicui beni ecclesiastici. Tra il 1517 e il 1520 da Roma, spiritualmente sorda e storicamente miope, si prestò ben poca attenzione al frate tedesco; solo nel giugno del 1520 fu pubblicata la bolla Exsurge Domine, che condannava 41 proposizioni di Lutero. Egli fu scomunicato nel gennaio del 1521 e la successiva Dieta imperiale di Worms sancì nei suoi confronti il “bando” dall’impero. Queste decisioni, mentre non ebbero alcuna efficacia concreta, accelerarono la formazione di un partito luterano in Germania, al quale aderirono uomini di ogni ceto, compresi vari principi. L’imperatore Carlo V assunse sin dall’inizio un atteggiamento contrario a Lutero. Convinto peraltro della necessità di una riforma della Chiesa da realizzarsi mediante un concilio, Carlo V approfittò delle preoccupazioni romane per la situazione tedesca per ribadire la necessità, prima con Clemente VII e più tardi con Paolo III, di un concilio, verso il quale si mostrava disponibile anche Lutero. Quest’ultimo riteneva peraltro che un concilio dovesse essere libero dall’autorità del papa, cristiano, cioè basato solo sulla Scrittura, e celebrato in Germania, dove il luteranesimo era nato. A Roma però il ricordo del conciliarismo era ancora troppo vivo e il timore di un’effettiva riforma troppo grande perché si potesse consentire alla richiesta di un concilio, al quale si opponeva, da parte sua, il re di Francia, ben lieto che il luteranesimo costituisse un motivo di debolezza nel cuore stesso dell’impero del suo avversario. Il rifiuto di riunire un concilio spinse Carlo V a cercare di sedare le tensioni religiose mediante accordi locali: in questo quadro Melantone il più dotto e fedele collaboratore di Lutero, redasse nel 1530 la Confessione di Augusta, una sintetica esposizione dei principi professati dai “protestanti” (protestantesimo ). Proprio in quest’occasione apparve chiaro che l’intenzione di Lutero non era affatto di creare una nuova Chiesa, ma di promuovere la riforma dell’antica nella quale egli desiderava continuare a vivere. Invece il rinvio del concilio, il crescente irrigidimento delle parti, l’interferenza di possenti interessi politici portarono gradualmente ad approfondire la frattura sino a renderla incolmabile. Nel frattempo la Chiesa tradizionale entrava in crisi anche in Inghilterra dove il re Enrico VIII proclamava nel 1534 l’Atto di supremazia, con il quale la Chiesa inglese era sottratta all’autorità di Roma (Comunione anglicana ). Dal canto suo il luteranesimo varcava i confini dei Paesi di lingua tedesca conquistando la Penisola Scandinava. Intanto iniziavano la loro predicazione anche Ulrich Zwingli (1484-1531) nella Svizzera tedesca e Giovanni Calvino (1509-64) a Ginevra. Il fronte protestante sembrava dividersi, ma si arricchiva anche di toni e orientamenti in larga misura complementari, acquistando nuove possibilità di espansione, soprattutto a opera del calvinismo (Paesi Bassi, Francia, Polonia e, successivamente, Scozia e colonie inglesi d’America). I protestanti non solo rifiutavano l’autorità del papa e dei vescovi opponendovi quella della Scrittura, ma valorizzavano il carattere sacerdotale comune di tutti i cristiani, sottolineavano il valore del battesimo e della cena rispetto agli altri sacramenti, criticavano il culto dei santi e la prassi delle indulgenze e soprattutto respingevano la possibilità per l’uomo di meritarsi la salvezza, che ritenevano dipendente essenzialmente da un gratuito atto di Dio. L’assenza di ogni coscienza pluralistica del cristianesimo impedì di vedere le possibilità di convivenza tra posizioni tanto diverse, così che la diversità si trasformò in reciproca eterodossia, si arrivò a “confessioni” contrapposte e infine si parlò addirittura di due religioni, quasi che non vi fossero cristiani da entrambe le parti. L’intransigenza di Roma si spinse sino alla creazione nel 1542 del Tribunale dell’inquisizione romana (più tardi Sant’Uffizio). L’impressione che la Chiesa tradizionale potesse essere travolta dalla Riforma  convinse finalmente Paolo III a convocare un Concilio generale a Trento. Se il Concilio fallì lo scopo di ridare pace e unità alla Chiesa, riuscì però nella sua opera di chiarimento dottrinale e di riforma ecclesiastica. D’altronde, già prima del Concilio si erano manifestate interessanti forze di ripresa: basti pensare alla Compagnia di Gesù fondata nel 1534 da Ignazio di Loyola e diffusasi enormemente nei decenni successivi, dopo l’approvazione papale del 1540.

Dall’espansione missionaria al Concilio Vaticano I

Con la circumnavigazione dell’Africa e la scoperta dell’America, l’attività missionaria aveva conosciuto un impulso nuovo. Mentre Domenicani e Francescani evangelizzavano l’America centrale e meridionale, troppo spesso senza dissociarsi dai metodi brutali e oppressivi dei colonizzatori, i Gesuiti concentrarono il loro impegno verso l’India e l’Estremo Oriente. Sulla scia di queste imprese evangelizzatrici, nel XVII secolo si ebbe un’attività missionaria intensa in tutti i continenti. Mentre sia in America sia in Asia fallivano per la diffidenza di Roma e nel disinteresse generale i tentativi di un incontro genuino tra i dati essenziali del cristianesimo e le culture indigene, l’attenzione era prevalentemente rivolta alle lotte politico-confessionali in corso in Europa e soprattutto in Francia. Con la stabilizzazione delle varie confessioni si ebbe un movimento d’irrigidimento dottrinale all’interno di ciascuna confessione.
Per i cattolici tale sforzo fu realizzato soprattutto dal gesuita Roberto Bellarmino (1542-1621). Da un punto di vista concreto, l’organizzazione, i modi di pregare e di attuare opere d’apostolato delle comunità cattoliche, luterane e calviniste furono molto più simili di quanto lasci intravedere l’aspra e incessante polemica, ma solo sporadicamente alcuni grandi spiriti mettevano in luce quanto i cristiani avessero in comune, promovendo tentativi di riunificazione. I responsabili ecclesiastici delle parti interessate si opposero a tali tentativi, denunciandone una pretesa insensibilità dottrinale, un irenismo che avrebbe voluto eliminare le difficoltà ignorandole. Parallelamente a questi aspetti della vita della Chiesa, si sviluppava un vasto movimento di rinnovamento della pietà che ebbe il suo nucleo cattolico in Francia (Pierre de Bérulle, Francesco di Sales) e quello riformato in Germania (pietismo). Appunto in Francia la ripresa della devozione si accompagnò spesso a un rigorismo morale ispirato a un’acuta coscienza dell’incapacità dell’uomo di guadagnare la salvezza (giansenismo, condannato da Clemente XI nel 1713 con la bolla Unigenitus).
Questi movimenti interessavano in modo sempre più esclusivo il numeroso mondo dei chierici, mentre i laici, emarginati dalla vita ecclesiale, s’impegnavano nell’attività mondana, sulla quale però l’autorità ecclesiastica pretendeva un controllo: ne fu segno drammatico la condanna di Galileo Galilei nel 1633. Il pensiero scientifico e filosofico moderno si vedeva così respinto in nome di un sacro immobilismo e iniziava il suo allontanamento dal cristianesimo. La simbiosi con i poteri statuali, suggerita alle Chiese dal bisogno di appoggio nella lotta confessionale, divenne sempre più una condizione normale, nella quale trono e altare si sostenevano a vicenda. Nonostante gli inconvenienti prodotti da tale rapporto, soprattutto per la pretesa dei sovrani di controllare le rispettive Chiese nazionali (gallicanesimo in Francia, giuseppinismo in Austria), le Chiese non ne uscirono se non quando vi furono costrette dagli effetti della Rivoluzione francese. Nondimeno restò nelle Chiese l’orientamento a cercare garanzie per i propri privilegi in un rapporto con i ceti economicamente e socialmente più forti, i quali a loro volta davano un significato accentuatamente conservatore alla propria adesione alla Chiesa. D’altronde l’identificazione della Chiesa con il clero aveva favorito l’individualismo religioso, che si esprimeva nell’eclissi della comunità cristiana e nella prevalente riduzione del cristianesimo stesso a una serie di precetti morali privati, rispettati soprattutto nella misura in cui il clero godeva del prestigio sociale e di autorità per imporli. Solo alla fine del XIX secolo le varie Chiese cominciarono a prendere atto che le masse popolari avevano un atteggiamento di sempre maggiore diffidenza nei loro confronti. Il fatto che il papa continuasse a essere, a causa del potere temporale sullo Stato della Chiesa, un principe tra i principi, non dissipava certo le incomprensioni. Una ripresa rispetto a questo stato di cose si manifestò nello stesso XIX secolo da due diversi punti di partenza: da un lato il cristianesimo tedesco a contatto con il Romanticismo espresse un profondo rinnovamento sia della riflessione teologica sia dell’atteggiamento nei confronti delle realtà sociali (lo stesso contrasto confessionale contribuì a stimolare questi movimenti). D’altro lato, nei medesimi decenni, alcuni tra gli uomini impegnati nell’opera missionaria in Africa, Asia e America Latina, coscienti dell’insostenibilità della divisione fra le confessioni cristiane, diedero vita a un movimento, che investì anzitutto le Chiese riformate, formulando sempre più chiaramente un obiettivo “ecumenico”: la riunificazione dei cristiani. Mentre si manifestavano questi fermenti, larga parte del mondo cristiano viveva ancora nella nostalgia di situazioni passate: ne fu manifestazione clamorosa la proclamazione dei privilegi dell’infallibilità e del primato del papa da parte del Concilio Vaticano  I riunitosi a Roma (1869-70); pochi mesi dopo, a seguito dell’unione di Roma al Regno d’Italia, il papa si dichiarò impedito nel libero esercizio del proprio potere spirituale e sollecitò i cattolici italiani al boicottaggio politico dello Stato.

Movimento ecumenico e rinnovamento della Chiesa

Nonostante tutto, i fermenti di rinnovamento continuarono a svilupparsi: a livello dottrinale, con la teologia liberale protestante (protestantesimo liberale), con il modernismo cattolico e una generale riscoperta della Bibbia e degli scritti dei Padri. A livello operativo, ci si orientò tanto verso l’attività sociale in favore dei ceti operai, quanto (nell’ambito della Chiesa cattolica) verso un recupero dei laici all’apostolato mediante l’Azionecattolica. Nello stesso tempo le Chiese si trovavano a far fronte a un vasto movimento anticlericale, che spingeva spesso anche i governi a realizzare un chiaro distanziamento, non privo di momenti conflittuali, rispetto all’organizzazione religiosa. Si sviluppa così, dalla fine del XIX secolo, una nuova fase nei rapporti tra Chiesa e Stato, caratterizzata dalla frequente stipulazione di accordi bilaterali. In questa linea può essere anche situato l’accordo tra il papato e il governo italiano del 1929 per il riconoscimento dello Stato della Città del Vaticano, che mise fine alla questione romana.
In tutti gli Stati si assiste a una notevole riduzione dei beni delle Chiese mediante leggi di secolarizzazione , insieme con affermazioni sempre più esplicite della libertà di coscienza e di religione. La nascita del movimento socialista, venato di messianismo e polemico nei confronti della funzione frenante abitualmente esercitata dalle Chiese cristiane verso le istanze popolari di emancipazione, sembrò a molti ecclesiastici il più esplicito rifiuto opposto dal mondo moderno al cristianesimo; l’ultima reazione a ciò fu il divieto di essere comunisti fatto ai cattolici da parte del Sant’Uffizio (1949). Di fronte ai due grandi conflitti mondiali della prima meta del XX secolo le Chiese cristiane sono apparse impotenti, nonostante l’enorme opera di assistenza svolta, e i ritardi e le esitazioni da parte del magistero ufficiale delle Chiese nel condannare le forme di crudeltà indiscriminata assunte dalla guerra e dalla repressione hanno contribuito a ridurre drasticamente la credibilità delle Chiese cristiane di fronte agli uomini. Solo con il pontificato di Angelo Roncalli (Giovanni XXIII, 1958-63), la celebrazione del Concilio Vaticano II (1962-65) e il contemporaneo impegno ecumenico delle Chiese riformate e ortodosse nel Consiglio ecumenico delle Chiese di Ginevra, il cristianesimo sembra ritrovare la via di un fecondo dialogo con gli uomini.
A partire dagli anni Sessanta del Novecento, è in corso in tutte le aree cristiane un profondo ripensamento dei modi tradizionali di esprimere e di vivere la fede. Caratteristica di questo fenomeno è di essere promosso spontaneamente dal basso senza intervento dei responsabili delle Chiese e spesso in polemica con loro. Una delle preoccupazioni dominanti riguarda il significato dell’essere cristiani rispetto ai grandi eventi che stanno modificando profondamente la vita del mondo contemporaneo. Da molte parti perciò si afferma la necessità di cercare una dimensione del cristianesimo che non sia più solo “verticale” (l’uomo e Dio), ma anche e soprattutto “orizzontale” (il cristiano e gli altri uomini).
Quest’orientamento dovrebbe portare i cristiani a un impegno diretto a fianco dei poveri, degli oppressi e degli sfruttati. Non si chiede più, come nella tradizionale dottrina sociale della Chiesa, che questa abbia un proprio programma sociale, ma che di volta in volta si schieri con i movimenti che realizzano la liberazione dell’uomo. Epicentro di questa tendenza è il cristianesimo latinoamericano, mentre nel mondo anglosassone sono forti le tendenze favorevoli a un’adeguamento del cristianesimo alle istanze della società neocapitalista. Un’altra dimensione di questa profonda ricerca di rinnovamento si esprime nei tentativi di realizzare nuove forme di vita religiosa. Basta ricordare, all’interno del cattolicesimo, i “preti operai”, i “piccoli fratelli di de Foucauld”, la restaurazione del diaconato. Ciò investe anche le comunità cristiane per cui, accanto alla denuncia della parrocchia tradizionale, si assiste sempre più al formarsi di comunità spontanee di base, in questo contesto si fa strada la discussione a favore di un sacerdozio temporaneo e perciò compatibile anche con lo stato coniugale. Tutto ciò conduce a sottoporre a critica moltissimi aspetti della vita cristiana ritenuti definitivi e conferisce alla vita delle Chiese un dinamismo offuscato da molti secoli, respingendo in secondo piano l’aspetto istituzionale a favore dell’impegno religioso dei singoli e dei gruppi. L’egemonia e la funzione guida del cristianesimo europeo appaiono in declino, mentre è prevedibile una forte presa di coscienza del cristianesimo latinoamericano africano e orientale di tradizione ortodossa.

Architettura

Edificio specificamente destinato al culto cristiano, i cui primi esempi si collocano a cavallo fra il II e il III secolo. Si tratta di quelle domus ecclesiae che, come dice il nome, derivavano dall’adattamento alle esigenze del culto delle domus romane a peristilio. Numerose sono le ipotesi degli studiosi intorno alle fasi evolutive che portarono alla comparsa delle prime basiliche nel IV secolo. Ormai abbandonata la teoria, risalente a Leon Battista Alberti, secondo la quale la basilica cristiana è direttamente derivata da quella civile romana, l’origine della basilica va ricercata accettando l’ipotesi della rielaborazione di elementi diversi dell’architettura pagana utilizzati in funzione delle nuove esigenze liturgiche.
Nell’organismo basilicale ogni parte assumeva specifici significati simbolici complessivamente manifestanti la lenta conquista spirituale della nuova fede. Dinanzi alla chiesa si trovava un atrio quadrato circondato da un portico, al centro dell’atrio era collocata la vasca di purificazione; infine, il lato del portico aderente alla facciata della chiesa (nartece) era destinato ai catecumeni e ai penitenti. Dal nartece si accedeva alla chiesa vera e propria: grande ambiente longitudinale chiaramente diviso in zone funzionali. Infatti, al clero erano riservati il presbiterio, l’abside (davanti alla quale si trovava l’altare e, sul fondo, la cattedra vescovile) e, prolungandosi nella navata, il recinto dei cantori, su due lati del quale si fronteggiavano due pulpiti (amboni), destinati alle letture dei Vangeli  e delle epistole. I fedeli invece, rigidamente divisi per sesso, trovavano posto nelle navate laterali (talvolta i primi posti nelle navate erano permanentemente riservati a eminenti personaggi e prendevano il nome di matroneum e senatorium). Alla basilica, edificio destinato al culto della comunità, si affiancavano normalmente, spesso comunicanti con la basilica, due edifici di dimensioni notevolmente minori, il battistero e il martyrion, dove venivano custodite ed esposte al culto le spoglie dei martiri; essi erano contraddistinti da impostazioni planimetriche caratteristiche, con pianta centrale (circolare, poligonale o polilobata) i battisteri, con pianta a croce greca i martyria.
È importante notare che, contemporaneamente ai complessi ora descritti, venivano realizzate anche in Europa (ne esistevano esempi in Siria e in Armenia) le prime chiese a pianta centrale. In questi edifici la necessità di mantenere inalterate le divisioni funzionali previste dalla liturgia portò a soluzioni architettoniche nuovissime e ricche di conseguenze per i successivi sviluppi. La più importante innovazione fu determinata dalla difficoltà di separare i due sessi in un ambiente per definizione unico. Il problema fu risolto circondando lo spazio centrale con due ambulacri sovrapposti il cui scopo era, per quello superiore, di accogliere le donne (matroneo, ora nella semplice accezione di luogo delle donne) e, per quello inferiore, di fungere da anello distributivo sia per l’area centrale (riservata agli uomini) sia per le torri scalari che, dai lati dell’ingresso, conducevano al matroneo. Architettonicamente ambigua (se non contraddittoria) rispetto alla centralità della pianta fu invece la collocazione dell’altare in una nicchia, o abside, posta di fronte all’ingresso. Da questo punto di vista più radicale fu la soluzione nelle prime chiese a pianta cruciforme, nelle quali, acquisita la distribuzione su due piani, l’altare fu collocato all’incrocio dei due assi dell’edificio. Alla quasi contemporaneità di queste prime esperienze architettoniche non corrispose un successivo sviluppo parallelo dei diversi organismi proposti. Fatta eccezione per la grandiosa sintesi fra organismo basilicale e organismo centrale realizzata in Santa Sofia a Costantinopoli e per il permanere di impianti centrali nelle Chiese d’Oriente (soprattutto in Armenia), lo sviluppo dell’architettura ecclesiastica si legò essenzialmente all’evoluzione dello schema basilicale.
Fra l’VIII e il X secolo, lo schema basilicale si trasforma fino ad assumere caratteri che resteranno immutati per tutto il periodo romanico e determinanti anche nei successivi sviluppi. Scomparso il nartece (l’abitudine dl battezzare subito i bambini eliminava, di fatto, i catecumeni), l’accesso alla chiesa avviene ora in modo diretto. La pianta dell’edificio, ormai sempre longitudinale e cruciforme, continua a essere divisa in navate, lateralmente replicate in altezza a formare matronei, mentre l’incrocio del corpo principale con quello trasversale (transetto) viene segnalato dall’innalzarsi del soffitto in un alto tiburio. Il presbiterio (che può includere o meno il transetto) è ora spesso sopraelevato per la presenza di un altro nuovo elemento, la cripta, nato dalla necessità di offrire uno spazio specifico al culto delle reliquie o dei resti dei martiri. Infatti, il problema determinato dall’afflusso di fedeli che si recavano all’altare per rendere omaggio alle reliquie ivi custodite (interferendo perciò nello svolgimento delle altre funzioni) fu risolto ponendo le reliquie a un livello più basso e scavando un corridoio che, dalle navate, passando sotto il pavimento della chiesa, consentisse di raggiungerle. Il successivo rapido ingrandirsi delle cripte in ambienti con funzioni anche di oratorio impose la necessità di dare luce a questo nuovo spazio: la cripta fu fatta parzialmente emergere dal terreno per poter aprire delle finestrine verso l’esterno e far penetrare dalla navata la sia pur fioca luce dell’interno. All’esterno dell’edificio principale permane il battistero mentre, scomparso il martyrion, compare il campanile, in forma di alta torre accostata alla chiesa ma non ancora inglobata nell’edificio principale. Il continuo aumento dell’interesse devozionale per santi e martiri fece ulteriormente modificare, in epoca gotica, l’area presbiteriale per potervi ricavare delle cappelle e il relativo accesso per i fedeli. Questo fu ottenuto isolando dal muro d’ambito della chiesa il complesso costituito dall’abside e dall’area dell’altare (sempre poggiante sulla cripta) e realizzando un deambulatorio (connesso con le navate) fra l’abside e la muratura esterna, nella quale, infine, erano ricavate le cappelle disposte radialmente.
Con il Rinascimento viene riproposta la pianta centrale, come la più adatta a esprimere la razionalizzante religiosità dell’Umanesimo (a ciò non è estraneo, con ogni probabilità, l’influsso della nuova cosmologia neoplatonica). Le chiese rinascimentali a pianta centrale si presentano come volumi unitari culminanti in una cupola sotto la quale, al centro della chiesa, è collocato l’altare. La nuova tipologia presenta aspetti veramente rivoluzionari con il negare, nella stessa struttura spaziale, la divisione in zone funzionali che era stata alla base di tutte le tipologie precedenti. Per questi motivi il nuovo organismo centrale trova sviluppi conseguenti solo nell’area della Riforma protestante, dove le chiese tendono sempre più ad assumere il carattere di sale di preghiera e predicazione con banchi rivolti verso il centro e disposti su gradoni concentrici. Contemporaneamente, in campo cattolico, viene messo a punto un nuovo tipo che ripropone la pianta longitudinale a croce latina: una grande navata con cappelle laterali è incrociata da un breve transetto oltre il quale si trova, largo come la navata, un grandioso presbiterio absidato; una cupola sovrasta sempre l’incrocio con il transetto, alle cui testate vengono collocati altari minori. In età controriformistica è particolarmente avvertito, da parte della Chiesa, il bisogno di affermare il proprio prestigio e di rafforzare la propria coesione interna anche attraverso un culto che riscuota un più largo consenso popolare: la teatralità barocca applicata allo spazio centripeto delle piante centrali ben si adatta a questo scopo. La semplicità geometrica del Rinascimento viene abbandonata a favore di complesse geometrie ellittiche, mentre l’apparato decorativo interviene sempre più prepotentemente a proporre interpretazioni sentimentali dei luoghi di culto. Dalla seconda metà del XVII secolo è comunque il tipo longitudinale a cappelle laterali che s’impone anche di fatto sia attraverso le nuove costruzioni sia per le numerosissime ristrutturazioni di chiese più antiche adattate alle nuove esigenze.
Nei secoli seguenti la tipologia delle chiese cattoliche resta praticamente inalterata e le poche varianti proposte fra la Prima e la Seconda guerra mondiale, dal movimento moderno vengono ignorate o scoraggiate. Solo in tempi recenti il movimento di rinnovamento liturgico e, poi, il Concilio Vaticano II hanno promosso notevoli innovazioni tipologiche, e negli anni Sessanta del Novecento si sono affermate sia la concezione della chiesa come aula assembleare con l’altare (e l’officiante) rivolto ai fedeli, sia una meno rigida distinzione fra zona riservata al clero e zona riservata ai fedeli, sia, infine, una forte integrazione fra aula ecclesiale e ambienti destinati alle attività sociali, ricreative, assistenziali.